Un leone ruggente, dalla grande criniera, attacca un leopardo sulla riva di un fiume: è la scena che anima un magnifico mosaico della Gubbio romana che fa ancora oggi bella mostra di sé sopra il camino della biblioteca di Holkham Hall, la residenza privata di ispirazione palladiana dei conti di Leicester, edificata nel Norfolk, la regione dell’Inghilterra orientale che si affaccia sul Mare del Nord.
Il raffinato emblema, un motivo figurativo decorato, si trovava in origine al centro di un pavimento del Teatro Romano di Gubbio, proprio vicino al proscenio. Affiorò poco dopo la metà del Cinquecento, durante la campagna di scavi che i conti Gabrielli promossero nei terreni di loro proprietà. Quasi un secolo prima, nel 1444, nella stessa area, la contadina Presentina sostenne di aver ritrovato le sette Tavole Iguvine, straordinaria testimonianza della civiltà degli antichi Umbri.
L’ammirazione dei poeti
Il mosaico del leone fu ritrovato insieme ai primi frammenti dell’iscrizione con la quale il quattuorvir Gneo Satrio Rufo rivendicava il suo ruolo nei lavori di ampliamento del Teatro Romano. L’eccezionale bellezza dell’opus vermiculatum, ottenuto con tessere di minuscole dimensioni, venne subito celebrata dai versi elegiaci di Andrea Palazzi di Mondavio, Angelo Giannini da Cingoli e Felice Andreoli da Gubbio, tre poeti di solito pronti alle voglie di adulazione della famiglia Gabrielli, ma questa volta con molte, obiettive ragioni.
L’emblema è un vero capolavoro: si tratta di un tappeto musivo quadrato, di 88 x 87,5 cm, con ben 25 minuscoli «vermicelli» policromi assemblati nel piccolo spazio di 1 centimetro quadrato. Altre tessere (14 per ogni centimetro quadrato) formano la cornice, arricchita a sua volta da una elegante decorazione a doppia guilloche su fondo scuro.
Secondo l’archeologo Bernard Andreae il mosaico è più antico del teatro stesso: risalirebbe infatti al II secolo a.C. e doveva in origine appartenere alla decorazione di una villa romana. È molto simile a un’altra opera, scoperta a Pompei e conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Entrambi i mosaici presentano la medesima scena e lo stesso paesaggio, basati su un unico modello pittorico.
Secondo Francesco Marcattili, docente all’Università di Perugia e autore di uno studio sull’argomento, il prototipo dell’emblema eugubino va ricercato in ambito alessandrino: lo proverebbero la resa degli occhi «tolemaici» dei felini: grandi, tondi e ben delimitati dalla linea intensa delle ciglia, secondo una tradizione figurativa consolidata. Il leopardo, ferito al ventre, giace a terra con le fauci spalancate. Il leone lo ha sorpreso mentre si stava dissetando in riva al fiume. E adesso lo blocca con le possenti zampe anteriori. I colori e le luci sprigionate dall’opera sembrano quasi separare il vincitore dal vinto: forti e luminosi nel leone, più chiari, neutri e delicati nella raffigurazione del leopardo, del quale spiccano soprattutto le macchie del mantello. Il leone sembra disinteressarsi della sua vittima. Piuttosto guarda, per ammonire, chi osserva la scena. L’emblema, infatti, rappresenta con ogni probabilità una vendetta dopo un tradimento.
Amore o politica?
Già Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, riprendeva alcuni temi esotici trattati nella Historia animalium di Aristotele. E si soffermava sull’immagine di una leonessa che si era accoppiata con un leopardo e che veniva quindi punita dal leone tradito mentre si lavava da quella ingombrante colpa nel fiume: «Odore pardi coitum sentit in adultera leo» (Naturalis Historia, 8, 42).
Nel mosaico di Iguvium, la vendetta si consuma invece, in modo diretto, proprio contro il rivale in amore. Forse per questo, l’autore dell’opera enfatizza la visione del sesso del felino sconfitto. Ma c’è anche una seconda lettura, più politica, e forse più funzionale al contesto pubblico dell’età augustea. Il leopardo, così simile alla profumata e dionisiaca pantera, poteva raccontare al pubblico che affollava il teatro di Iguvium l’immoralità del triumviro Marco Antonio, compagno dell’adultera Cleopatra, la figlia d’Africa che lo indusse a generare con lei anche dei figli. La parte del leone, come è ovvio, spetta all’imperatore Augusto, ormai padrone del mondo, che ha schiacciato chi è stato così folle da voler abbandonare Roma.
Ma come finì in Inghilterra lo splendido mosaico? L’eugubino Girolamo Gabrielli, un giurista molto considerato dai pontefici Gregorio XIII e Sisto V, proprietario del terreno del teatro, trasferì l’emblema a Roma. Nella Città Eterna era già famoso. Anche per aver finanziato la costruzione di due celebri residenze cinquecentesche: Palazzo Gabrielli – Mignanelli, nei pressi di piazza di Spagna, e Palazzo Gabrielli – Borromeo in via del Seminario, a due passi dal Pantheon. Il colorato mosaico eugubino fu sistemato prima nel giardino e poi in una sala interna di palazzo Mignanelli.
Alla metà del Seicento, il conte eugubino Giovanni Battista Cantalmaggi, uno dei primi studiosi delle Tavole Eugubine, in un manoscritto oggi conservato presso l’Archivio Comunale di Gubbio, affermò di aver visto proprio nel giardino del signorile palazzo romano quello che era da tutti stimato come «uno dei piú belli mosaici antichi». Qualche anno più tardi, nel 1664, lo storico dell’arte Giovan Pietro Bellori, a proposito dei conti Gabrielli, annotò: «Nel loro palazzo sotto la Trinità de’ Monti conservano nel muro di una camera un mosaico antico del miglior secolo de’ Romani, bellissimo: rappresenta un leone, il quale preme et isbrana una tigre; et in detto palazzo vi sono altri degni ornamenti».
L’emblema doveva certamente trovarsi a Roma anche nei primi anni del Settecento: venne infatti riprodotto da Francesco Bartoli, figlio del perugino Pier Santi, a sua volta allievo di Nicolas Poussin, in un disegno a penna e acquerello ora alla Eton College Library. La didascalia recita: «Musaico Antico nel Palazzo Mignanelli». E ancora nel 1752, Giuseppe Alessandro Furietti, cardinale archeologo, grande studioso di Villa Adriana, nel suo De musivis cita, ammirato, il colorato emblema di Palazzo Mignanelli.
Un grand tour memorabile
L’uomo che portò via il mosaico dall’Italia fino a Holkham Hall era un vero dandy, con il vezzo di vestire sempre di bianco: Thomas William Coke, ricchissimo primo conte di Leicester, che giunse a Roma ventenne, dopo aver visitato Torino, Napoli e Firenze. Era il nipote di un altro Thomas Coke, come lui bulimico collezionista dell’arte italiana, famoso per aver guidato nel 1731 la prima gran loggia massonica d’Inghilterra. Ma soprattutto per aver dato vita, di fatto, alla moderna etruscologia, grazie alla pubblicazione in sette libri (1726) del manoscritto di Thomas Dempster, il De Etruria Regali, in cui la storia degli Etruschi veniva ricostruita sulla base delle fonti letterarie greche e latine.
Il Grand Tour di Thomas William Coke «il giovane» registrò momenti fiammeggianti, di cui si parlò a lungo anche in patria. Accadde infatti che a Roma il gentleman fosse invitato a un ballo mascherato offerto da Luisa di Stolberg, contessa d’Albany, moglie di Carlo Edoardo Stuart, ultimo pretendente cattolico al trono inglese. E che la nobildonna perdesse la testa per lui. Tanto che quando il ragazzo partì, l’avvenente Luisa, che anni dopo diventò l’amante del poeta Vittorio Alfieri, ne ordinò il ritratto a Pompeo Batoni, il più accreditato tra i pittori dell’epoca: il giovane Coke è raffigurato in piedi. Alle sue spalle si scorge una scultura, che è in realtà la contessa d’Albany, la quale volle essere raffigurata, vicino a lui, come un’Arianna dormiente.
Thomas lasciò Roma con molti, preziosi souvenir d’Italie, tra cui il leone ruggente di Gubbio, che certo dovette costargli una fortuna. A Holkham Hall, il mosaico fu sistemato nella biblioteca, sopra il camino, a poca distanza da altre meraviglie: il Codice Hammer (già Leicester) di Leonardo di Vinci, una copia del Cartone di Pisa di Michelangelo, il cartone per La belle Jardinière del Louvre di Raffaello, molte preziose miniature e il manoscritto originale del De Etruria Regali di Dempster. Quanto alla presenza di un mosaico così importante in uno dei pavimenti perduti del Teatro Romano di Gubbio, ancora Marcattili ha avanzato nuove, interessanti ipotesi. Lo studioso fa notare che l’orgogliosa iscrizione di Gneo Satrio Rufo registra la sponsorizzazione di ludi victoriae Caesaris Augusti, con la bellezza di 7750 sesterzi. Si tratta di una cifra considerevole, superiore a quella necessaria per il completamento del teatro stesso e molto più alta della somma che il quattuorvir investiva per il vettovagliamento delle legioni. A quell’epoca, a Iguvium, come in altre città della Penisola, negli spettacoli teatrali venivano esibiti molti animali esotici, la cui caccia e il successivo trasporto in Italia richiedevano non solo importanti investimenti economici, ma anche influenti appoggi politici. Un altro segno del privilegio che la capitale del mondo antico riservava all’antica Gubbio che nel 49 a.C., proprio all’epoca della costruzione del grande teatro, aveva appoggiato con forza e lealtà la causa di Cesare nella guerra civile contro Pompeo. E che andava premiata come la più antica e fedele alleata umbra di Roma.