Un terremoto devastante ha causato la sua rovina. O forse, meno tragicamente, è rimasta esclusa dalle principali vie di commercio. È avvolta in un segreto bimillenario, la fine di Carsulae; così come la sua nascita. In gran parte sepolta e ancora misteriosa, la città fantasma a due passi dal borgo di Cesi, nel Ternano, offre oggi uno scenario suggestivo, un viaggio nel tempo lungo duemila anni e tante domande ancora senza risposta.
La storia della “Pompei dell’Umbria”
La storia di Carsulae è strettamente legata quella della via Flaminia, fatta costruire nel 220 a.C dal console Caio Flaminio sfruttando tracciati utilizzati sin dalla protostoria come vie di transumanza e sentieri militari. La Flaminia fu la prima strada pubblica diretta verso il nord della penisola e accelerò l’espansionismo romano nella pianura padana. La via mantenne nel tempo le caratteristiche di arteria di scorrimento veloce e di raccordo con la viabilità minore, diventando così un polo di attrazione per le popolazioni insediate sulle alture principalmente umbre con un’economia pastorale, che decisero di trasferirsi in siti pianeggianti.
Carsulae, fondata probabilmente da famiglie dedite al commercio stanziate lungo la strada, era sorta sul ramo occidentale dell’importante arteria consolare, nel tratto che da Narni giunge a Foligno, passando per Vicus Martis Tudertium e Bevagna. La città aveva subito un’importante opera di rinnovamento da parte di Augusto in occasione del restauro della Flaminia e in era cristiana era diventata una città tanto importante da essere titolare di una diocesi.
L’inizio della sua decadenza coincide con l’apertura della deviazione per Terni e Spoleto (zone più urbanizzate ed economicamente fiorenti) che, dirottando il traffico altrove, aveva fatto mancare alla città la sua principale risorsa economica, causando il progressivo abbandono da parte degli abitanti. Il terremoto potrebbe quindi essersi limitato a dare il colpo di grazia a una città che nel IV secolo appariva già prostrata e in pieno degrado.
Eppure, come accaduto a Pompei, anche a Carsulae proprio la rovina della città ha segnato la fortuna dell’area archeologica.
La maggior parte di edifici di epoca romana nel mondo è scomparsa sotto le ricostruzioni e i riutilizzi stratificati nel corso dei secoli (basti pensare alla maggior parte dei teatri e degli anfiteatri – Colosseo compreso – sopra i quali sono state costruite abitazioni e altri edifici). Mentre Carsulae permette ancora di aggirarsi nella città romana: qui il tempo si è fermato, e varcati i tornelli del parco archeologico ci si può incamminare sulle strade lastricate segnate dalle ruote dei carri, osservare edicole sacre con falli scolpiti, ammirare la bellezza del teatro e dell’anfiteatro, aggirarsi tra cippi marmorei, resti di templi, fondamenta di antichi condomini, tombe monumentali e passare sotto l’arco detto di San Damiano, simbolo stesso della città e divenuto nel corso degli anni una delle mete preferite degli innamorati.
Unico edificio intatto tra le rovine è la chiesa di San Damiano, costruita nel medioevo riutilizzando materiali delle strutture romane, oggi scelta spesso per i matrimoni.
La Carsulae riemersa
La città è stata gradualmente riscoperta a partire dal Seicento, in seguito al crescente interesse della Chiesa per l’archeologia, ma solo nel 1783 fu organizzata una vera e propria campagna di scavi per iniziativa di papa Pio VI, che aveva bisogno di arricchire il Museo Pio Clementino.
Le ricerche portano al rinvenimento del teatro e dell’anfiteatro, ma la scarsità di reperti mobili induce gli archeologi ad abbandonare il sito. Di fatto gli scavi archeologici, a Carsulae, riprendono solo nel 1851 raggiungendo l’apice tra il 1951 e il 1972, per iniziativa dell’ispettore alle antichità Umberto Ciotti.
Il lungo lavoro per far riemergere dalle viscere della terra Carsulae ha visto anche la ricomposizione, con i pezzi originali, delle antiche strutture. Tra questi proprio l’arco che ornava l’ingresso al foro, costruito probabilmente durante il restauro di epoca augustea, e il podio di due templi gemelli, probabilmente dedicati a Dioscuri, sotto i quali – in un’epoca successiva – erano state ricavate anche una serie di taverne a uso degli abitanti e dei viaggiatori che transitavano lungo la Flaminia.
Il teatro, realizzato in età giulio-claudia, era stato realizzato principalmente in opera reticolata e aveva una cavea di 62 metri; due gradinate a rampa davano accesso a un pianerottolo da cui si potevano raggiungere le sezioni della cavea superiore. Della scena – che doveva avere dimensioni di 37×12 metri – rimangono pochi resti e gli incassi delle travi per i marchingegni tecnici e per il sipario. Sotto la cavea, durante la prima campagna di scavi, è stato trovato un vano chiamato “ambiente degli lavori” all’interno del quale sono stati rinvenuti 70 frammenti di decorazioni in avorio, insieme ad altri in marmo, ceramica, metallo e a vari grammi di foglie d’oro.
L’anfiteatro, realizzato successivamente, aveva invece una forma ellissoide, ed era stato costruito su una depressione naturale del terreno, con l’asse maggiore di 86,50 metri: buona parte dell’opera fu ricavata scavando il terreno, mentre la restante venne costruita con blocchetti di calcare e ricorsi in laterizio.
Tra gli altri edifici visibili, la basilica – utilizzata per le assemblee pubbliche – che aveva una navata centrale e due navate laterali separate da file di colonne, mentre l’abside in fondo ospitava la cattedra del magistrato. E ancora, la Cisterna Antiquarium, usata per raccogliere l’acqua e il Collegium Iuvenum, la scuola per i giovani.
Fuori dal nucleo urbano si trova poi l’area cimiteriale, dove fanno bella mostra di sé una serie di monumenti funebri, tra cui uno a tamburo di notevoli dimensioni forse appartenuto alla Gens Furia e databile al primo secolo avanti Cristo.
Il 90% ancora da scoprire
In realtà tutto questo rappresenta meno del 10% dell’antica Carsulae: la maggior parte della città romana, infatti, è ancora sepolta sotto il terreno; un mondo sommerso i cui frammenti continuano a venire fuori nel corso delle campagne di scavi che ancora oggi si avvicendano nell’area. Particolarmente importanti, sotto questo profilo, sono stati i risultati di quella del 2017, che ha riportato alla luce una nuova domus che sta emergendo subito a sud della piazza forense, le strutture del lato ovest della piazza e molto altro.
“Un serbatoio di scoperte” l’ha definita Luigi Carlini, presidente della Fondazione Carit che ha finanziato la campagna, nel corso della quale è stata scoperta anche una grande discarica di epoca Augustea, dalla quale sono stati recuperati migliaia di pezzi di ceramica. La stessa campagna ha riportato alla luce e reso fruibili ai visitatori del parco archeologico i resti del podio del Capitolium (il tempio principale) e di un grande lastricato in pietra rosa.
È stata indagata inoltre per la prima volta anche un’area di circa 100 metri quadrati dalla quale sono riemerse le strutture della domus con all’interno una serie di pavimenti a mosaico dai motivi più o meno elaborati e geometrici, tutti databili agli ultimi 30 anni del primo secolo a. C. e nella quale si possono riconoscere rombi, esagoni, stelle e svastiche ma anche cinte murarie con torri e merli. Tornate alla luce anche la bottega di un fornaio, dove si è trovato il punzone per mettere il timbro sul pane e sessanta monete.
Un’altra campagna di scavi – promossa da un’università americana a partire dal 2005 e guidata da Jane Whitehead – ha riportato alla luce le terme; una scoperta che ha dato luogo anche a una suggestiva ipotesi: e cioè che già in epoca romana l’acqua delle fonti della vicina città di San Gemini fosse utilizzata per le sue proprietà curative.
Oltre all’area archeologica (dove si possono effettuare visite guidate e percorsi tematici) il parco comprende il Centro visite e documentazione con l’Antiquarium (dove sono esposte lanterne, cippi che segnavano le sepolture, frammenti di statue e sarcofagi) ma anche un negozio, un bar, il Paleolab e spazi che ospitano conferenze, spettacoli, mostre, attività ludiche e didattiche per bambini.
Il parco archeologico è stato poi spesso cornice di eventi suggestivi come il concerto della tribute band dei Pink Floyd, lo spettacolo U-Ulisse di Marco Paolini, Arnaldo Pomodoro e Uri Caine ma anche il tematico Imperator – Viaggio immaginifico nelle vite dei Cesari di Stefano de Majo e Livia Massarelli (con cui il teatro romano è tornato qualche anno fa alla sua funzione originaria) e lo sperimentale Todo lo que està a mi lado dell’argentino Fernando Rubio: curiosa performance in cui lo spettatore deve sdraiarsi in un letto con l’attrice nel bel mezzo del prato.
Non è mancato nemmeno il cinema, tra le rovine della città romana: Luca Manfredi le ha scelte infatti come set di un “meta-film”, girandoci una scena della fiction In arte Nino ambientata a sua volta su set cinematografico, in cui il giovane Nino Manfredi debutta come attore interpretando il ruolo di un pastorello.