Il 3 è un numero ricorrente nella storia di Gubbio. Tre sono i santi della città, così come tre sono gli dei della triade umbra: Giove-Marte-Vofione
Il numero magico
Del valore assegnato al numero tre dagli antichi Umbri si può considerare erede la Festa dei Ceri, che ogni anno, il 15 maggio, anima Gubbio. Tre santi: Ubaldo patrono, Giorgio guerriero e Antonio, garante della eugubinità.
Come la triade umbra Giove-Marte-Vofione. E poi le processioni, le sfilate, i giri nella piazza, le tre soste, simili ai cortei dei sacerdoti di Marte, i Salii sabini. Da cui nacquero il saltarello e la tarantella, danzati in triplice tempo, proprio come l’ahtrepudaom, il «tripudiare», citato nelle Tavole di Gubbio, che in senso letterale vuol dire «battere i piedi in tre tempi».
E poi c’è la kletra, una portantina di legno. Era la gabbia da trasporto per la pecora e il maiale, gli animali che venivano sacrificati durante la cerimonia delle Sestentasie, la festa che serviva a propiziare i raccolti e che dava inizio all’anno agrario.
La barella rituale non doveva essere molto diversa da quelle su cui oggi poggiano i Ceri. Dietro la kletra, portata a braccia, tutta la gente di Iguvium saliva al monte sacro, l’okri Fisio, insieme ai rappresentanti delle comunità umbre federate.
Sulle Tavole di Gubbio è scritto: Alven kletram aparito, cioè «Al campo si allestisca la portantina». Cosí le parti in legno della kletra venivano assemblate appena fuori dalla città, «al campo».
In parte avviene anche oggi per i Ceri, nel giorno della festa, quando le tre macchine di legno, dopo una pausa, ripartono, poco oltre la porta di S. Ubaldo. Antico e moderno, morte e preghiere, si confondono nelle parole incise sul bronzo.
Nelle ore del sacrificio in nome di Torsa Giovia, dodici giovenche «mature» venivano messe in fuga per le vie della città.
Il rito della loro cattura evoca le tauromachie dei popoli mediterranei e la vertiginosa e celebre corrida di Pamplona, a cui, in qualche modo, somiglia anche alla «Fuga del Bove», la festa popolare natalizia della città umbra di Montefalco, una volta molto più feroce di quella celebrata ancora oggi, dove un bue, abbeverato da una miscela di pepe e vino, saliva lungo le vie cittadine e poi moriva, sfinito dalla corsa, tra le grida della folla che esultava di fronte alla morte dell’animale.