Le Tavole Iguvine sono una finestra aperta su un mondo che per molti versi è all’origine della cultura di Roma. Oggi sappiamo che quei testi impressi sulle sette tavole di bronzo custodite a Gubbio sono copie di archetipi antichissimi in cui affondano le radici delle culture safine (Sabini, Umbri, Piceni, Sanniti, ecc.) dell’Italia all’inizio dell’età del Ferro.
Nonostante la leggenda della fondazione di Roma, la città eterna non è figlia della cultura delle bande di avventurieri che accompagnavano Romolo e Remo, ma della cultura delle genti sabine, e quindi safine, che già vivevano in riva al Tevere. Infatti secondo la tradizione, il re sabino Tito Tazio regnò cinque anni accanto a Romolo dopo il ratto delle Sabine, evento da cui discende la nobiltà delle famiglie romane. In seguito, venne affidata al re sabino Numa Pompilio l’organizzazione dell’impianto civile e religioso della comunità romana.
Come scrive Plutarco nella Vita di Numa (17, 3):
«Numa distribuì i cittadini secondo le arti e i mestieri (…) e poi istituì delle adunanze collettive e delle assemblee pubbliche, dei riti e delle funzioni religiose proprie di ognuna di quelle categorie. In questo modo egli bandì dalla città la pratica di parlare e pensare di alcuni cittadini come Sabini e di altri come Romani, o di alcuni come sudditi di Tazio e di altri come sudditi di Romolo, tanto che alla fine la sua organizzazione risultò come una armoniosa fusione di tutti loro insieme».
Bisogna ricordare che il mondo culturale dei Sabini risulta sostanzialmente lo stesso a quello Umbro che si esprime nelle Tavole Iguvine: entrambi, infatti, affondano le loro radici nella tradizione safina preromana.
Ci sono delle coincidenze significative tra la cultura della Roma delle origini e quella che si esprime nelle Tavole Iguvine.
Da Pontieks a Pontifex
Alle origini di Roma, nell’epoca dei re, il collegio dei pontefici era l’istituzione religiosa per eccellenza. Dionigi di Alicarnasso (Antichità romane, II 73,1) scrive che i pontefici istituiti da Numa Pompilio erano cinque, e che tali rimasero fino all’anno 300 a.C. La figura del pontefice non è però una creazione originale romana. Seguendo la traccia lasciata dalle parole, infatti, si scopre che una confraternita di “pontefici” esisteva anche nel mondo Umbro. Nella III Tavola Iguvina si legge:
«Poi i confratelli presentino alle unità quinarie (ponti) elette il magistrato in capo; (lo faccia) chi dei confratelli si troverà nel luogo dell’assemblea secondo le regole. Quindi il magistrato si sieda sulla pietra nella sede dell’assemblea. Il magistrato proclami che le unità quinarie (ponti) devono procurare un porcellino e una pecora. Allora le unità quinarie (ponti) elette tra i confratelli scelgano il porcellino e la pecora».
Nella lingua delle Tavole accanto al termine ponti, «cinquina, unità quinaria», doveva esistere il termine pont-eks o ponti-eks, che indicava «il pontico», il membro della cinquina. Lo si ricava dall’esistenza del termine fratr-eks, “il fratrico”, il membro della fratellanza, più volte citato nelle Tavole.
Ebbene, a Roma Numa porta l’istituto sabino dei cinque pontici, ognuno dei quali era un pontieks. Non ci volle molto perché i Romani reinterpretassero il termine pontieks come pontifex, intendendolo come colui che istituisce il ponte fra la comunità e la divinità.
Il mistero delle Vestali
Un altro istituto condiviso da Gubbio e da Roma è quello delle Vestali. Dalla lettura affiancata di alcuni passi delle Tavole di Gubbio ricaviamo che nei sacrifici pubblici si usava il ranu, “ranno”. Cos’è? Qualcosa che si fa sul posto utilizzando il sale: la salamoia, composta d’acqua e sale. A Roma questo composto è preparato dalle Vestali e viene chiamato muries.
Numerosi passi delle Tavole prescrivono l’uso del fuoco per i sacrifici: un fuoco che non si può accendere ex novo sul luogo prescelto, ma che deve essere portato attingendo le fiamme da un altro fuoco. Quale altro fuoco, se non quello sacro che simboleggia la casa comune? Anche questo importante indizio lascia intendere che le Vestali erano in funzione anche a Iguvium, anche se le Tavole non le nominano,
La tradizione antiquaria ci mostra l’esistenza del collegio delle Vestali presso le genti italiche, anche prima che Numa lo istituisse a Roma. Anche perché il termine “vesta”, glottologicamente non designava una dea (come sarà poi in epoca storica, per l’influenza del modello greco), ma “l’insediamento, l’abitato”.
Il rito dell’augurazione
Anche il rito dell’augurazione, con cui si doveva accertare la disposizione positiva della divinità, è lo stesso a Gubbio e a Roma. Nella Tavola Iguvina VI.a si legge:
«Colui che sarà andato a rilevare i messaggi augurali, stando seduto, dal capanno così si rivolga all’officiante: “Stipula (con la Divinità) che io osservi l’upupa e la cornacchia da destra, il picchio e la gazza da sinistra: gli uccelli giusti e i richiami giusti in quanto divini».
E nella Tavola I.a si legge:
«Questa cerimonia (l’officiante) la inizi dopo aver rilevato gli uccelli, quelli di fronte e quelli alle spalle».
Appare evidente che nella rilevazione dei richiami degli uccelli augurali l’officiante (colui che ha la capacità di stipulare il patto con la divinità) e l’augure (colui che svolge il compito di orecchio e occhio dell’officiante) devono disporsi reciprocamente ad angolo retto, in modo che gli uccelli scorrano fronte ↔ retro per l’officiante, e destra ↔ sinistra per l’augure, il quale deve osservare in prospettiva l’abitato.
L’antico abitato di Iguvium era sicuramente posto appena sopra l’attuale Via dei Consoli a Gubbio, che ne segnava il limite inferiore. Al di fuori erano dislocate le sepolture di età protovillanoviana recentemente scoperte. Perciò esiste una sola possibilità di posizionamento della coppia “officiante-augure”, in modo che l’augure possa osservare l’abitato appena al di sopra dei “tetti”: il luogo delle rocce a mezza costa del monte Foce. Ovvero quelle che il testo definisce «rocce augurali».
In Livio 1.18 si legge come Numa si fece «inaugurare» sullo sfondo dell’abitato di Roma. L’augure accompagna Numa sull’arce, lo fa sedere su un sedile di pietra, rivolto a sud (deductus in arcem, in lapide ad meridiem versus consedit). L’augure prende posto alla sinistra di Numa [cioè verso est], rivolge la sua vista verso la città e il territorio [che quindi è a est], definisce le direzioni da est a ovest, e dichiara che le zone a destra sono a sud e quelle a sinistra sono a nord [regiones ab oriente ad occasum determinavit, dextras ad meridiem partes, laevas ad septentrionem esse dixit]; quindi fissa mentalmente davanti a sé il punto più lontano a cui possa giungere con lo sguardo, e infine pone la mano destra sul capo di Numa e prega:
«O Giove padre, se è destino che costui, Numa Pompilio di cui io tocco la testa, sia re di Roma, dacci dei segni manifesti entro i confini che io ho tracciato».
Poi enuncia verbalmente gli auspici che vuole siano inviati. E una volta apparsi gli auspici, Numa è dichiarato re, e può scendere dal colle augurale.
È evidente che a Roma e a Iguvium si svolgevano riti del tutto identici, sia come forme esterne sia (soprattutto) come ideologia costitutiva del rito stesso.
E se in Livio non è esplicitato quali fossero gli uccelli considerati augurali a Roma, l’informazione è fornita da Plauto, che in Asinaria 249-251 scrive:
impetritum, inauguratumst: quouis admittunt aues, picus et cornix ab laeua, coruos, parra ab dextera consuadent …
«dunque è deciso, confermato dall’augurio: dovunque lo affermano gli uccelli, lo assicurano il picchio e la gazza da sinistra, il corvo e l’upupa da destra».
Gli stessi uccelli. E nelle stesse posizioni delle Tavole Iguvine.