- Gli etruschi furono la prima delle popolazioni dell’Italia antica ad introdurre la scrittura.
- Una delle tecniche usate dagli etruschi per scrivere era l’incisione su tavoletta d’avorio o di bronzo
- Uno dei primi alfabeti etruschi conservati lo possiamo leggere sulla tavoletta rinvenuta a Marsiliana d’Albegna, nella Maremma meridionale
- La tavoletta di Marsiliana d’Albegna aveva un carattere pratico: serviva per guidare lo scriba nella stesura dei testi
Gli Etruschi e la scrittura
Gli etruschi furono la prima delle popolazioni dell’Italia antica ad introdurre la scrittura. Il loro alfabeto derivava da alcune varianti dell’alfabeto greco che, secondo un racconto più “mitologico” che reale, riportato da Tacito, fu introdotto nelle terre degli etruschi da Demarato di Corinto, ricco cittadino dell’importante polis greca, nonché padre del re di Roma Tarquinio Prisco. La vicenda è destituita di fondamento, e possiamo dunque tracciare la storia della diffusione dell’alfabeto in Etruria grazie ai reperti che si sono conservati: è dunque possibile ipotizzare che gli etruschi abbiano conosciuto la scrittura alfabetica grazie al tramite dei coloni provenienti dall’Eubea (un’isola della Grecia da cui erano partiti i primi colonizzatori di quella che sarebbe in seguito divenuta la Magna Grecia), che si erano stabiliti in Campania.
Con i coloni euboici, gli etruschi avevano preso a commerciare, importando ceramiche, gioielli, utensileria. Molti degli oggetti che gli etruschi acquistavano dai coloni greci presentavano iscrizioni: dapprima, gli etruschi introdussero l’alfabeto greco come elemento decorativo per le proprie ceramiche, che imitavano quelle greche. Quindi iniziarono non solo a interpretarlo e a utilizzarlo, ma anche a modellarlo secondo i suoni della loro lingua. Le logiche d’introduzione della scrittura in Etruria furono, tuttavia, molto complesse.
Come ha scritto l’insigne etruscologo Massimo Pallottino: «È possibile che le cause siano state diverse: esigenze pratiche di natura commerciale non disgiunte tuttavia, crediamo, da una inarrestabile pressione di domanda e di offerta di cultura nella tendenza delle nascenti aristocrazie locali e presumibilmente degli ambienti di culto ad accogliere modelli e costumi orientali e greci; penetrazioni più o meno concomitanti, ma forse distinte, dai porti di Caere, di Tarquinia, di Vulci”. In sostanza, “non un avvenimento unico e istantaneo, ma piuttosto un processo articolato, che forse si attua o almeno si completa attraverso più di una generazione».
L’alfabeto etrusco
L’alfabeto etrusco, nel corso dei secoli, conobbe delle evoluzioni: per esempio, furono eliminate le lettere “B” e “D” derivanti dal greco, in quanto non avevano suoni corrispondenti nella lingua parlata, e lo stesso accadde per la “O” (probabile che gli etruschi la pronunciassero come noi pronunciamo la “U”), e alcuni segni subirono leggere modifiche. Per esempio, il gamma che i greci utilizzavano per il suono “g” duro (o “sonoro”, secondo i termini tecnici della fonologia), venne trasformato dagli etruschi, che lo portarono ad assumere una forma a mezzaluna (la moderna “C”) e, dal momento che gli abitanti della Toscana dell’epoca non pronunciavano il suono “g”, lo usarono per esprimere il suono “c” duro, con la stessa funzione che rivestiva la lettera “K” (che invece dall’alfabeto greco non conobbe alcuna trasformazione).
“C” e “K” venivano utilizzate per pronunciare lo stesso suono (esattamente come accade nel moderno italiano con la “C” e la “Q”, la cui differenza è solo grafica e non fonetica), e le preferenze nell’uso dell’uno o dell’altro segno variavano su base regionale (per esempio a nord è attestato maggiormente l’uso della K, mentre al sud in epoche più recenti si affermò l’uso della “C”, e in età arcaica la lettera cambiava a seconda della vocale che la seguiva, e le sillabe erano così composte: ka, ce, ci, qu).
La lettera C passò poi dall’alfabeto etrusco a quello latino che, contrariamente a quanto si pensava in passato, non è di derivazione etrusca, ma discese anch’esso da quello greco, pur accogliendo alcuni fenomeni peculiari della scrittura etrusca.
Uno dei primi alfabeti etruschi che si sono conservati è quello che possiamo leggere su di una tavoletta rinvenuta a Marsiliana d’Albegna, nella Maremma meridionale, e oggi conservata al Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Ritrovata nella tomba di un aristocratico, la tavoletta rappresenta il più antico esempio di alfabeto etrusco completo che conosciamo: l’opera infatti è databile all’incirca al 670 avanti Cristo, e ci fornisce diverse informazioni.
La prima, la più ovvia, è il fatto che l’alfabeto etrusco delle origini sia molto simile, quasi identico, a quello greco. La seconda è l’andamento della scrittura: gli etruschi scrivevano da destra verso sinistra, oppure, talvolta (anche se le testimonianze non sono frequenti) secondo un sistema bustrofedico (che si ritrova soprattutto nei reperti più antichi), ovvero da destra a sinistra e quindi da sinistra a destra a righe alternate. Rare sono invece le attestazioni di scrittura da sinistra verso destra.
L’oggetto del Museo Archeologico di Firenze ci permette di conoscere una delle tecniche che gli etruschi adoperavano per scrivere: l’incisione su tavoletta d’avorio o di bronzo (in questo caso si tratta di una tavola d’avorio).
Ma gli etruschi scrivevano su qualsiasi supporto: vasi, pietre, cippi, pareti, tombe, urne, pitture murali. E sappiamo anche che usavano l’inchiostro, perché ci è giunto un testo scritto con inchiostro su fasce di lino: risalente al terzo secolo avanti Cristo e noto come Liber Linteus Zagabriensis (“Libro di lino di Zagabria”), si tratta dell’unico reperto di questo tipo che conosciamo, e coincide anche con il più lungo testo in lingua etrusca attualmente noto (è un drappo che avvolgeva una mummia e il testo non è altro che un calendario liturgico con festività e rituali: fu rivenuto in Egitto a metà Ottocento e acquistato dal collezionista croato Mihajlo Barić, che in seguito lo donò al Museo Archeologico di Zagabria, dov’è tuttora conservato).
Infine, la tavoletta di Marsiliana d’Albegna aveva un carattere pratico: serviva, cioè, per guidare lo scriba nella stesura dei testi.
Ma quali erano gli usi pratici ai quali gli etruschi destinavano la scrittura? Occorre specificare che pressoché tutti i testi etruschi che sono giunti sino a noi (circa dodicimila) sono legati al cerimoniale religioso o alla ritualità funebre: la stragrande maggioranza delle testimonianze scritte etrusche è infatti costituita da iscrizioni su tombe, dediche a divinità, epigrafi.
Ci sono però interessanti casi, anche se rari, che hanno il pregio d’introdurci nella vita quotidiana degli etruschi. In tal senso, il documento sicuramente più interessante è la cosiddetta Tabula Cortonensis (“Tavola di Cortona”), una tavola di bronzo che s’inserisce anche al terzo posto della “classifica” dei testi etruschi più lunghi che conosciamo (al primo figura il già citato Liber Linteus Zagabriensis, circa mille e duecento parole, mentre il secondo più lungo, circa trecentonovanta parole, è la Tabula Capuana, che contiene un altro calendario liturgico).
La Tabula Cortonensis, rivenuta a Camucia, una frazione di Cortona, e conservata attualmente al Museo dell’Accademia Etrusca di Cortona, si compone invece di circa duecento parole disposte su trentadue righe nella faccia anteriore e otto su quella posteriore, ed è interessante anche perché ci permette di comprendere benissimo un’altra peculiarità del modo di scrivere degli etruschi, che non usavano, come accade nella nostra scrittura, gli spazi per separare le parole: erano infatti soliti scrivere tutte le parole di seguito e separarle attraverso un punto che si collocava all’incirca a metà dell’altezza delle lettere.
La Tabula Cortonensis è stata interpretata come un atto notarile che regola la compravendita di una proprietà. Tale atto, risalente al secondo secolo avanti Cristo, fu emanato dallo zilath mechí rasnai, il principale magistrato della città etrusca (all’incirca corrispondente al pretore dei romani: una figura che aveva, tra gli altri, il potere di dirimere le questioni civili tra i cittadini): stando a quanto leggiamo nella tavola, che ci è giunta in sette degli otto frammenti nei quali fu anticamente spezzata, il compratore era un consorzio familiare composto da tre persone appartenenti alla famiglia Cusu e che si chiamavano Velche, Laris e Lariza, mentre il venditore era un mercante d’olio, di umili origini ma molto ricco, che si chiamava Petru Scevas.
Sappiamo che la compravendita fu regolata tramite un particolare rito, diffuso anche presso i romani, la cosiddetta in iure cessio: era una modalità di acquisto che metteva in atto un finto processo dove il compratore rivendicava diritti sulla proprietà del venditore. Quest’ultimo, interrogato dal magistrato, non rispondeva alle domande facendo sì che il processo si risolvesse con l’assegnazione dell’oggetto del finto contenzioso al compratore.
Altro documento decisamente interessante è il Cippo di Perugia, ritrovato nel 1822 e attualmente custodito al Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria. Si tratta di un grande cippo di travertino che dobbiamo immaginare posto all’interno di una proprietà condivisa da due famiglie, quella dei Velthina, originari della Perugia etrusca, e quelli degli Afuna, che invece provenivano da Chiusi.
Il cippo, risalente a un periodo a cavallo tra il terzo e il secondo secolo avanti Cristo, contiene un’iscrizione che regola le modalità d’uso della proprietà, nella quale si trovava una tomba della famiglia Velthina. Nell’atto è citato un giudice, di nome Larth Rezu, alla presenza del quale le due famiglie avrebbero concordato il patto d’utilizzo della proprietà. La formula finale zichuche (“sta scritto”) suggella la validità dell’accordo.
Meno interessante per quanto riguarda i contenuti, ma decisamente più spettacolare, è l’iscrizione che troviamo sul Sarcofago delle amazzoni, uno straordinario e rarissimo sarcofago dipinto a tempera su pietra con scene tratte dal mito di Atteone e con una battaglia di Amazzoni: l’opera fu rinvenuta a Tarquinia e fu fabbricata in Grecia anche se, con tutta probabilità, fu decorata in Italia, con una pittura che rappresenta al momento l’unico esempio di questa tipologia nell’ambito dell’arte etrusca.
Ci colpisce per la sua modernità, la sua freschezza, la caratterizzazione individuale delle figure, il grado di naturalismo. Quanto all’iscrizione, troviamo sul coperchio una lunga scritta che rende noto il nome della defunta e il nome del membro della sua famiglia che fece realizzare il sarcofago.
L’iscrizione recita Ramtha Huzcnai thui ati nacnva Larthial Apaiatrus zileteraias, ovvero «Qui giace Ramtha Huzcnai, nonna di Larth Apaiatru, zilath degli stranieri».
C’è poi un altro pezzo unico, il cosiddetto fegato di Piacenza, che ci ha permesso di conoscere i nomi di molte divinità: si tratta di un fegato di bronzo, conservato ai Musei Civici di Palazzo Farnese a Piacenza, diviso in caselle con i nomi degli dèi, che serviva per offrire un modello di divinazione (gli etruschi praticavano questo rito proprio attraverso le viscere degli animali, nelle quali si pretendeva di leggere il volere degli dèi).
Sappiamo dunque che gli etruschi veneravano, tra gli altri, il dio del sole (Cautha), la dea della fortuna (Cilens), il dio del vino (Fuflus), il dio dei boschi (Selvans), il dio dei mari (Nethuns), ma gli dèi più importanti erano Tin (corrispettivo del Giove dei romani) e Uni (sua moglie, corrispondente alla Giunone latina).
È lecito immaginare che, attraverso tutti questi documenti, siamo riusciti a ottenere un buon livello di conoscenza della lingua etrusca. Purtroppo però le nostre cognizioni in questo senso rimangono molto lacunose, e l’etrusco è per noi ancora, sostanzialmente, una lingua misteriosa: sono infatti troppo pochi i testi, e quasi sempre troppo specifici per averci permesso di arrivare a una piena comprensione della lingua etrusca. Peraltro la maggior parte di essi contengono quasi esclusivamente nomi di persone. In molti testi figurano parole ancora intraducibili (un esempio è proprio il Liber Linteus Zagabriensis, che ha ancora alcuni passaggi dal significato tuttora oscuro).
Conosciamo però diverse parole dell’etrusco. Alcune sono quelle legate alla famiglia: apa (padre), ati (madre), apa nacnva e ati nacnva (nonno e nonna, letteralmente “padre grande” e “madre grande”), ruva (fratello), clan (figlio), sech (figlia), puia (moglie), nefts (nipote), papals (nipote, riferito al nonno), tetals (nipote, riferito alla nonna), husiur (bambini), tusurthiri (sposa). Altri sono nomi di animali: leu (leone), hiuls (civetta), thevru (toro). Conosciamo poi diversi termini relativi allo stato e alla società: methlum (stato), spur (città), spurana (civico), lauchume (console), camthi (censore), tular (confine).
Data l’abbondanza di oggetti legati alla ritualità funeraria, abbiamo molte conoscenze sulla terminologia specifica: hinthial (anima), mutna (sarcofago), murs (urna), penthna (cippo), suthi (tomba), suthina (funerario).
Conosciamo anche i numerali da uno a dieci, anche se non tutti gli studiosi sono concordi su alcuni dei numeri (per esempio, sul quattro e sul sei, che potrebbero essere invertiti): thu (1), zal (2), ci (3), ša (4), mach (5), huth (6), semph (7), cezp (8), nurph (9), šar (10). Gli etruschi contavano su base decimale, e le decine (tranne il numero venti, zathrum) si formavano col suffisso -alch: cialch (30), sealch (40), machalch (50), huthalch (60), e così via. I ritrovamenti ci hanno consentito anche di giungere a una buona comprensione della grammatica etrusca: sappiamo quindi che gli etruschi avevano le declinazioni con i casi come in latino, che i verbi avevano tempi per indicare il presente, il passato e il futuro, che utilizzavano anche il congiuntivo. E ovviamente non manca il termine con cui gli etruschi chiamavano se stessi: Rasna.
Sappiamo, infine, dell’esistenza di una letteratura etrusca, della quale però non è sopravvissuta alcuna testimonianza: conosciamo infatti le opere della classicità greca e latina perché ci sono state tramandate attraverso le copie redatte durante il Medioevo. Tuttavia, poiché nel Medioevo la lingua etrusca non era conosciuta, i copisti dell’epoca non serbarono memoria delle produzioni dell’Etruria.
Attraverso le citazioni di autori latini sappiamo tuttavia che gli etruschi scrissero libri religiosi, opere teatrali (Varrone cita un drammaturgo etrusco di nome Volnio), raccolte storiografiche, libri scientifici e, con ogni probabilità, anche opere poetiche. E la produzione letteraria etrusca dovette essere decisamente importante se un autore come Livio afferma che, in un periodo corrispondente alla fine del quarto secolo avanti Cristo, i giovani di Roma si recavano a Caere, una delle più potenti città etrusche, l’odierna Cerveteri, per studiare letteratura.
Nello specifico, in riferimento a un politico del tempo, Livio scriveva, nel suo trattato Ab urbe condita, che «Era stato inviato a Caere e aveva studiato la lingua e la letteratura etrusca. Conosco autori che affermano che all’epoca i giovani romani studiavano la letteratura etrusca così come oggi si studia quella greca».
La scrittura etrusca rivestì una notevole importanza in Italia, perché l’alfabeto degli etruschi si diffuse in diverse regioni, soprattutto nell’Italia del nord e nelle regioni alpine, e potrebbe aver prestato elementi anche all’alfabeto runico. È pertanto innegabile come gli etruschi abbiano introdotto, per primi in Italia, una delle più importanti innovazioni della storia della civiltà.