- C’è un’immagine archeologica, quella dei bronzetti italici “con testa radiata” o “coronata”, la cui origine non è mai stata chiarita.
- La distribuzione di queste statuette nell’Italia centrosettentrionale corrisponde alla presenza dei dialetti “paleoumbri”
- La presenza di un bronzetto di questo tipo in un deposito rituale doveva indicare che chi l’aveva dedicato aveva svolto la funzione di officiante pubblico
Il mistero
Perché i bronzetti italici hanno quello strano copricapo che li caratterizza insistentemente? Forse conviene lasciare la parola agli autori classici.
In una lettera all’amico Frontone, l’imperatore Marco Aurelio scrive: «Ma prima di raggiungere la nostra casa di campagna ci siamo diretti ad Anagnia, a circa un miglio dalla strada principale. Poi abbiamo visitato quell’antica borgata, un posto minuscolo, in effetti, ma oltremodo notevole per le antichità, gli edifici, e le cerimonie religiose. Non c’era un angolo senza una cappella o un santuario o un tempio; e soprattutto c’erano molti volumi di lino, specialmente di contenuto sacrale. Infine, sulla porta, mentre uscivamo, trovammo una duplice scritta come segue: Flamen sume samentum. Ho chiesto a uno dei cittadini cosa significasse quella parola. Ha detto che in lingua ernica è la pellicola della vittima, che il sacerdote applica sopra il suo capo quando entra in città».
Che lo strano copricapo di molti dei bronzetti italici abbia a che vedere con il samentum degli Hernici, che incuriosì il coltissimo Marco Aurelio? Forse nelle Tavole Iguvine, la Tavole di Gubbio, si nasconde la soluzione anche di questo piccolo mistero, come quella di molti altri arcani del passato preromano?
Il numero cinque
Nella III Tavola di Gubbio ricorre per tre volte il termine ponti-, una volta come nominativo plurale, nell’espressione urtas puntes (III.9 e una da solo come puntes III.10), e una terza volta come dativo plurale nel sintagma urtes puntis (III.4). Per necessità testuale e per ragioni di grafia, è certo che in urtas/urtis vada visto il participio orta– e in puntas/puntes un sostantivo astratto in -ti-, cioè ponti-.
Dal dettato testuale si ricava che le ortas pontis (urtas puntes) sono in relazione di pertinenza con i fratelli Atiedii, gli officianti dei riti eugubini, ma non designano l’intera collettività dei confratelli, pur essendo le ponti- costituite di persone che hanno la capacità “istituzionale” di scegliere le vittime sacrificali. E l’idea vulgata che siano “cinquine” è strettamente a fondamento etimologico: infatti è noto che in umbro (lingua con labializzazione delle labiovelari) il tema pompe significa ‘cinque’, in quanto esito del numerale indeuropeo *kwonkwe; e si è dedotto che il sostantivo ponti- debba essere l’assimilazione di pompti-, cioè l’astratto derivato in -ti- dal numerale per ‘cinque’, qualcosa come l’italiano “cinquina”. E anche se una formazione del genere non esiste in nessuna altra lingua indeuropea, è ragionevolmente attendibile in umbro, non foss’altro per la frequente presenza nel testo iguvino di altre formazioni in -ti-.
Quanto a ortas deve valere ‘chiamate, elette’, in quanto participio di un verbo er-/or- che significa ‘convocare, chiamare’, noto anche nella variante osca della Tavola Bantina, dove vale ‘invocare’. Il sintagma orta- ponti- deve dunque significare ‘cinquine elette per chiamata’, e indicare un gruppo di cinque confratelli incaricati a rotazione di funzioni specifiche, certamente tutte legate alla liturgia pubblica.
Tornando al racconto di Marco Aurelio, la moderna indeuropeistica suggerisce che samentum contenga la radice indeuropea *sem-/som– ‘assemblare, raccogliere’ (IEW 904-5), e che significhi ‘il raccoglitore’. In particolare, l’ernico samen-to- è un derivato in -to- del tema indeur. *somen– ‘riunire, mettere insieme’ attestato dal sanscrito samana– n. ‘riunione, assemblamento. Questi confronti inducono a vedere nell’ernico samento- quella soluzione o>a che riteniamo tipica del paleoumbro.
Il ciuffo di capelli a forma di corona
Ed ecco la sintesi di questo percorso: il samentum, il raccoglitore, doveva designare proprio l’avvolgimento di cinque ciuffi di capelli in forma di corona, assemblati con la membrana di una precedente vittima, come mostrano i numerosi bronzetti italici di offerente, e questo particolare avvolgimento “quinario” doveva indicare lo stato di membro di una “cinquina” di officianti pubblici.
E la presenza di un bronzetto di questo tipo in un deposito rituale doveva indicare che chi l’aveva dedicato aveva svolto la funzione di officiante pubblico,
Osserviamo infine che la distribuzione di queste statuette nell’Italia centrosettentrionale non corrisponde tanto all’area delle “lingue italiche” (tradizionalmente dette osco-umbre e oggi, meglio, safine), quanto piuttosto alla distribuzione dei dialetti “paleoumbri”. Così sono state oggi definite le prime presenze indeuropee che hanno dato nome ai corsi d’acqua di tutta l’Italia durante l’età del bronzo finale, nel secondo millennio a.C.
L’idea stessa delle “cinquine” annuali di officianti sembra proprio appartenere alle culture paleoumbre, vista la sacralità del numero ‘cinque’, inteso come mezza decade. Si sa infatti che il dieci godeva di una particolare sacralità sociale nel mondo paleoumbro, come testimonia la cerimonia della “decade” di cui parlano i riti descritti nelle Tavole Eugubine (II.b e V.b), che diversi elementi fanno risalire all’età del bronzo.