Per definire nei dettagli schieramenti e sviluppo della battaglia del Trasimeno (21 giugno 217 a.C.) occorre conoscere a fondo il teatro in cui esso si svolse. Costantemente collocato da quasi tutta la storiografia moderna sulla costa settentrionale del lago Trasimeno – in Umbria, nell’odierna provincia di Perugia – prima tra Montegualandro e Passignano, poi tra Passignano, Torricella e Montecolognola, il campo di battaglia è stato in seguito opportunamente limitato entro il circuito di colli compreso tra Montegualandro e Montigeto, dove si è collocato il campo cartaginese.
Un nome evocativo
Decisivo per l’ambientazione dello scontro, l’angusto varco tra le ultime propaggini dei montes Cortonenses e il lago, che Annibale superò il giorno avanti la battaglia, è stato ormai identificato oltre ogni dubbio, a oriente di Borghetto, con la strettoia a cui Cipriano Piccolpasso, un erudito del XVI secolo, assegnava già il nome (carico forse di echi lontani e infausti?) di «Malpasso».
Tra gli studiosi più eminenti che si sono occupati della battaglia, solo Johannes Kromayer (1859-1934) ha escluso questa identificazione, ritenendo a causa di una fallace valutazione dei luoghi e di nozioni erronee di idrologia, che la strettoia non fosse transitabile in età romana; ha finito così per cercare un altro ingresso al vallone dell’agguato, affermando di averlo trovato più a oriente, a Montigeto-Passignano e collocando perciò lo scontro tra questa località e Montecolognola.
Al di là della ricostruzione topografica, non mancano, rispetto al dato delle fonti, scelte tali da inficiare ulteriormente la sua ipotesi, dalla distanza rispetto ai montes Cortonenses menzionati invece esplicitamente da Livio alla conformazione della valle in cui avrebbe avuto luogo l’agguato, che non presenta, come invece sostiene Livio (22, 4, 4: in patentiorem campum), lo spazio per allargarsi in aperto oltre il passaggio; fino alla scelta, attribuita ad Annibale, di lasciare i suoi cavalieri al di fuori dell’imbocco. Il Malpasso, dunque, punto sicuro; e la valle che, al di là di esso, si estende fino a Montigeto, parzialmente interrotta al centro dallo sprone di Tuoro, che, pur senza raggiungere il lago, si spinge verso la sponda, formando una sorta di quinta, fino quasi a sdoppiare, in sostanza, lo spazio in due ambiti successivi.
È questo, dunque, il teatro della battaglia; ma le forze contrapposte occuparono entrambe le conche, da Borghetto fino a Passignano e Montigeto? Oppure gli schieramenti e lo scontro coinvolsero solo il primo settore, cioè quello compreso tra Borghetto e Tuoro, che prende il nome da quest’ultimo centro (o da Sanguineto, la cerchia di bassi colli che lo racchiude)? Tra le teorie residue che godono di maggiore credibilità solo l’ultima, quella di Giancarlo Susini, su cui torneremo, restringe l’evento unicamente alla valle di Sanguineto.
Le prime ipotesi al vaglio
Le altre ricostruzioni – quella formulata da Heinrich Nissen (1867) e quelle, che presentano molti punti di contatto, variamente rielaborate da Josef Fuchs (1904 e 1911), da Luigi Pareti (1912) e da Gaetano De Sanctis (1917) – mettono in evidenza, tutte, molteplici e significative aporie rispetto al dato delle fonti; aporie che, partendo dall’autopsia del campo di battaglia, Ermanno Gambini e io abbiamo verificato in dettaglio in precedenti lavori. Per riandare a qualche particolare soltanto, Nissen forza a dir poco il dato circa la disposizione sul campo di frombolieri balearici e truppe annibaliche levis armaturae (fanteria leggera), ai quali la posizione proposta avrebbe di fatto impedito di intervenire; e soprattutto quella della cavalleria punica.
Quest’ultima sarebbe stata schierata sulle pendici occidentali del Montegualandro, scoscese e dunque impraticabili per qualsiasi montura. Oppure, ipotesi ancor più bizzarra, sarebbe stata lasciata a operare addirittura al di fuori del Malpasso, nella piana di Borghetto. A sconfessare in proposito lo studioso tedesco basta il fatto, certo, che Caio Flaminio sia stato ucciso da un Insuber eques, da un cavaliere gallico; sicché pare evidente che queste forze fossero all’interno del vallone. In parte soltanto? Soltanto quelle galliche?
Sembra impossibile che il Cartaginese abbia diviso i suoi cavalieri, vanificando la loro preziosa superiorità numerica; o li abbia addirittura lasciati integralmente all’esterno della conca, separati dal resto dell’esercito. Si tratta di un’ipotesi che – avendola trovata già in Kromayer – ha confutato per primo De Sanctis: nell’un caso «la cavalleria (…) l’arma su cui i Cartaginesi piú fidavano, era perduta se i Romani, avvedutisi in tempo dell’imboscata, avessero chiuso, com’era sommamente facile, il passaggio (…) e avessero attaccato con forze soverchianti tutti quelli che ne erano rimasti fuori, (…) ossia per l’appunto i cavalieri nemici». Infine la via di fuga seguita dai 6mila dell’avanguardia romana, fuga per la quale, dopo avere sfondato le linee puniche, avrebbero costeggiato il lago in direzione di Passignano prima di cercare scampo in altura: ove così si fossero condotti, non avrebbero poi trovato sul loro cammino più alcun punto da cui – come ricordano Polibio (3, 84, 11-14) e Livio (22, 6, 8-9) – scorgere alle spalle il campo disseminato dei loro caduti.
In cerca di scampo
Assai simili fra loro, le teorie elaborate da Fuchs, Pareti e De Sanctis differiscono per alcuni punti soltanto, sicché si potrà controbatterle in un’unica analisi critica. Per la via di fuga dei 6mila risulta almeno in parte accettabile l’ipotesi di Luigi Pareti, che pensa a una immediata salita dei Romani in cerca di scampo salendo verso il Pischello, mentre lo sfondamento verso Passignano, soluzione comune agli altri due autori, già esposta alla stessa obiezione avanzata nei confronti di Nissen, risulta ancor meno credibile se si accetta che qui, in prossimità del campo, fossero schierate le fanterie veterane di Libi e Spagnoli (Livio 22, 4, 3: cum Afris modo Hispanisque…).
In effetti, è la disposizione proposta per le truppe puniche in agguato a risultare particolarmente discutibile. I Baleari e i leggeri, innanzitutto: se fossero stati schierati alle spalle di Tuoro, tra questa zona e il Torale, sarebbero stati troppo dispersi per poter essere controllati da Annibale. Se poi, in conformità con la testimonianza di Livio (22, 4, 3), la loro posizione fosse stata addirittura post montes, allargata in questo caso lungo l’arco collinare alle spalle di Tuoro e verso Sanguineto, sarebbero rimasti troppo lontani dal campo di battaglia vero e proprio, e privi dunque di ogni autentica prontezza operativa; mentre le maglie del loro schieramento sarebbero risultate troppo larghe per contenere qualsiasi spinta massiccia da parte romana.
Infine, l’accampamento presso il quale tutti e tre gli autori situano le fanterie pesanti è stato concordemente da loro collocato a Montigeto: certo non un luogo in aperto, dove sia possibile essere visti; e ancor meno vedere, alla distanza di otto chilometri in linea d’aria, l’ingresso del nemico nella trappola onde poter dare «signum omnibus (…) simul invadendi» («dare a tutti il segnale di attaccare insieme»; Livio 22, 4, 5).
La data dello scontro
Al di là di tutte queste considerazioni, un ragionamento si impone però come del tutto dirimente, e obbliga a rifiutare le ricostruzioni fin qui proposte. Ove ci si rivolga a quella che è forse la più obiettiva, certo la più particolareggiata tra le nostre fonti, dello scontro riusciamo a stabilire perfettamente i tempi. Ci si vedeva appena – vixdum certa luce (Livio 22, 4, 4) – quando, in un’alba nebbiosa (Livio 22, 4, 6), Caio Flaminio uscì dal campo varcando la strettoia del Malpasso per inseguire Annibale. Poiché la data riportata da Ovidio (Fast. 6, 765-768) è quella del 21 giugno, che secondo il calendario astronomico corrisponderebbe in realtà, per il 217 a.C., al 9 maggio, possiamo plausibilmente ipotizzare che l’esercito romano si sia mosso poco prima delle 6 del mattino. Conosciamo altresì con buona approssimazione l’ora ultima dello scontro.
Quando, sgusciate nella caligine oltre le linee puniche e giunte momentaneamente al sicuro in altura, le avanguardie di Flaminio si volsero indietro, poterono, al dissolversi della nebbia incalescente sole, scorgere il campo costellato di uccisi e l’ultima vana resistenza dei loro commilitoni, «perditas res stratamque (…) foede aciem» (Livio 22, 6, 9). Si doveva esser giunti poco oltre le 10, quando comincia a far caldo.
Una terza informazione, sempre da Livio (22, 6, 1), completa il quadro: «tres ferme horas pugnatum est» («si combattè per circa tre ore»).
Conosciamo dunque la durata effettiva dello scontro, e possiamo stabilire l’ora approssimativa in cui cominciò la battaglia: le 7 circa del mattino. Mattino nel quale le legioni furono costrette a marciare verso la loro sorte in mezzo alla nebbia che ancora incombeva sulla valle: quando si scatenò l’attacco «dal clamore che si levò da ogni parte i Romani seppero di essere circondati prima ancora di aver visto il nemico». Non vi erano strade su cui marciare; e prima di giungere di fronte al colle di Tuoro avevano probabilmente dovuto (fatto su cui torneremo…) assottigliare progressivamente lo schieramento in corrispondenza della strettoia del Malpasso, per poi riordinarlo e riprendere il precedente assetto appena ne furono usciti giungendo là dove il terreno si faceva paulo latior («leggermente più largo»).
I fuochi di Annibale
Che in questo quadro un esercito il quale, anche in condizioni ottimali, arrivava a coprire non oltre dieci o dodici miglia al giorno abbia potuto percorrere in nemmeno due ore i dodici chilometri circa che separano sul terreno Borghetto da Passignano è dunque assolutamente impossibile. Il punto massimo a cui giunsero le avanguardie, quando, alzando gli occhi, scorsero non tanto il campo nemico, quanto i fuochi che Annibale aveva acceso a bella posta in alto, deve per forza collocarsi al di qua dello sprone di Tuoro.
Questa constatazione offre dunque una risposta in sé conclusiva al quesito che ci siamo posti sopra: il corso degli eventi deve essere per forza interamente ambientato nella valle di Sanguineto. E ci riconduce, come punto di partenza, a chi ha meglio elaborato questa ricostruzione: Giancarlo Susini (1960; storico dell’antichità e socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, Giancarlo Susini [1927-2000] è stato uno dei massimi studiosi internazionali di epigrafia latina e per oltre un trentennio ha insegnato storia romana nell’università di Bologna).
Il mio maestro non è stato il primo a porsi su questa via: lo avevano preceduto George Beardoe Grundy, Emil Sadée, Friedrich Reuss. Certo però ha affrontato il cammino in modo assai piú approfondito, poiché nella sua indagine ha seguito un approccio di tipo multidisciplinare, chiamando a soccorrerlo l’idrologia e l’archeologia, l’aerofotogrammetria e persino la toponomastica. Forse proprio la prima di queste scienze, pur da ultimo inducendolo parzialmente in errore, lo condusse tuttavia più vicino di chiunque altro alla verità, orientandolo a limitare il teatro della battaglia alla sola conca di Sanguineto.
Affidandosi di preferenza, secondo la scelta abituale in quegli anni, al resoconto di Polibio, Susini fu sedotto dall’idea di rintracciare sul terreno una sorta di simmetria, in realtà inesistente, che coglieva nel testo dello storico greco. Immaginò dunque, un lago dalle acque molto più alte, che si spingeva fin sotto lo sprone di Tuoro, formando una stenosi opposta e speculare rispetto a quella occidentale, fino a costituire un secondo «Malpasso di levante»; e determinando così sul terreno una separazione non solo visiva ma di fatto tra le due conche, tale da rendere praticamente impossibile una gestione unitaria dello scontro. Lo confortavano in apparenza, nella sua idea, tanto l’idrologia, in cui vigeva allora l’ipotesi che riteneva il lago soggetto nel tempo a un abbassamento progressivo a causa sia dell’interrimento, sia della messa in opera di emissari artificiali; quanto la fotografia aerea, che sembrava attestare l’interrompersi sul terreno delle linee di centuriazione. Ciò indusse Susini a fissare l’antica linea di costa molto a monte di quella attuale, facendola coincidere di fatto con il tracciato della Strada Statale 75 bis del Trasimeno.
L’una e l’altra sua congettura erano però destinate a rivelarsi fallaci. L’archeologia sembrò, in effetti, dargli ragione grazie alla scoperta, avviata da lui stesso, di un gran numero di ustrina, invasi con tracce di combustione emersi a decine sotto Sanguineto.
Al loro interno questi rivelarono – secondo l’analisi condotta presso l’Istituto di Chimica dell’Università di Perugia – non solo la presenza frequente di ceneri organiche, ma restituirono anche le punte spezzate di armi da lancio dall’evidente tipologia.
Per contro, però, l’indagine portò alla luce, in tempi successivi, una cospicua serie, rimasta ovviamente a lui ignota, sia di reperti archeologici di età etrusca, sia di materiali ceramici risalenti al periodo imperiale anche all’interno dello specchio lacustre; ciò che ha permesso di attribuire la scomparsa delle linee di centuriazione all’azione delle acque in epoche successive e in particolare probabilmente, alle imponenti ed estese piene di età medievale e moderna.
Quanto ai cicli del lago, nelle sue vicende non solo recenti il fattore determinante sembra essere stato sempre non quello dell’interrimento, ma quello climatico, secondo il variare delle precipitazioni. Così, decisiva per la definizione delle linee di costa (e assolutamente inestimabile al fine di confermare le soluzioni proposte nella ricerca di Ermanno Gambini e mia…) si è rivelata l’indagine condotta dall’équipe del CNR, di cui Luca Gasperini ha dato conto in una pubblicazione recente nella quale il suo nome è associato al nostro: nel momento della battaglia, lo specchio lacustre aveva dimensioni sostanzialmente coincidenti con le attuali. Non è mai esistito un «Malpasso di levante», una seconda strettoia formata dalle pendici del monte immediatamente digradanti verso il lago.
Il campo cartaginese
E tuttavia la soluzione offerta da Giancarlo Susini rimane di gran lunga la più attendibile. Conforme alle fonti è la sua proposta di collocare sulle pendici dello sprone su cui sorge Tuoro sia il campo cartaginese, reso visibile malgrado la nebbia dai fuochi lasciati accesi onde attirare l’attenzione dei Romani in marcia; sia le fanterie pesanti veterane, Libi e Iberi, rimaste a presidiarlo.
Per i 6mila all’avanguardia, che probabilmente senza quasi rendersene conto riuscirono a sgusciare oltre il nemico, Susini prospetta una via di fuga assolutamente plausibile, tra le ultime linee dei Celti e le pendici di Tuoro, varco che li portò verso il monte Castelluccio, dove trovarono un momentaneo scampo all’interno di un villaggio etrusco identificabile con il luogo a cui gli umanisti hanno dato il nome di «Trasimena». Del pari accettabile (e del resto accertata tramite Polibio…) è la posizione occupata dai Galli, schierati a semicerchio dall’ala estrema, sulle rocce che sovrastano il Malpasso, dove attesero acquattati nella nebbia il passaggio delle legioni, fino alla zona sotto Sanguineto; mentre meno definita appare in lui la posizione della cavalleria, che, seguendo ancora Polibio, dispone a semicerchio in parallelo alla linea di marcia seguita dai Romani.
I Baleari e i leggeri, infine. Secondo Livio e Polibio, Annibale li condusse ad appostarsi post montes, oltre le alture situate sul fianco del vallone, avanzandoli poi per chiudere ai Romani ogni via di scampo; Susini – per il quale la strettoia a oriente rendeva superflua questa manovra – propone una disposizione a semicerchio tra Sanguineto, l’altura di Tuoro e, oltre, la sponda del lago. Restano, nella sua ricostruzione, alcuni punti deboli; la risposta ai quali può tuttavia, per paradosso, essere fornita almeno in parte proprio a partire dalla conformazione del terreno, diversa rispetto a quella da lui immaginata. L’obiezione più seria, forse la sola, è quella che – emersa già in qualche modo nelle stime di tutti coloro che si sono occupati del problema, da Nissen e Fuchs, da Pareti e De Sanctis – è stata ripresa anche di recente da recensori e studiosi di età successiva come Frank William Walbank e Serge Lancel: la conca di Sanguineto poteva contenere, si è detto, una parte soltanto dell’esercito di Caio Flaminio, mentre per l’armata di Annibale, assai più numerosa, sarebbe stato addirittura impossibile dispiegarsi efficacemente per intero lungo le pendici delle alture che cingevano il vallone.
Questioni irrisolte
Altre due questioni restavano poi irrisolte. Qual era la collocazione reale dei Baleari e dei fanti levis armaturae? E Polibio e Livio, pur partendo da opposti punti di vista – il primo osserva il campo da oriente, il secondo lo guarda da occidente – affermano per caso la stessa cosa, intendendo riferirsi alla disposizione di queste truppe nello schieramento? E infine, tenendo conto della particolare linea di marcia dei Romani lungo la sponda del lago, come può accettarsi l’affermazione, presente tanto in Polibio (3, 84, 3) quanto in Livio (22, 4, 7), secondo cui in una particolare fase dello scontro le truppe di Flaminio furono attaccate su entrambi i lati?
Se al momento della battaglia tra le ultime pendici dello sprone di Tuoro e la sponda del lago non esistevano strettoie, e, anzi, vi si apriva come oggi una superficie emersa della profondità media di 1500 m circa, ciò presupporrebbe non solo l’esistenza di uno spazio molto maggiore a disposizione dei combattenti, ma anche l’aprirsi di un varco lungo la linea di marcia delle legioni, una via di scampo che Annibale doveva per forza chiudere.
Questo spazio, e dunque questa esigenza, manca del tutto nella ricostruzione proposta da Susini; che quindi finisce per sovrapporre in parte la posizione dei fanti leggeri punici a quella di Libi e Spagnoli, assegnando loro un ruolo in fondo a dir poco secondario. È probabile, invece, che la disposizione post montes alluda a un loro schieramento concentrato, oltre il monte di Tuoro, all’imbocco di due valloni orientati verso il lago, quello percorso dal torrente Navaccia e quello, successivo, dietro il colle di Mariottella; di qui, al comando simul invadendi (Livio 22, 4, 5), sarebbe calata una cortina di uomini. Pur leggeri, questi avrebbero potuto bloccare le avanguardie nemiche; tanto più che queste, nella circostanza, sarebbero state presumibilmente traumatizzate e quasi allo sbando. Oltre ai Baleari, infatti, ne faceva forse parte anche un nucleo di lonchophoroi, come li chiama Polibio: una versatile e temibilissima schiera di montanari iberici, cosìí definiti dalla lonche – probabilmente il soliferreum, un giavellotto interamente metallico –, impareggiabili combattenti di spada, la terribile falcata iberica, e in grado di battersi alla pari anche contro fanterie pesanti. In una fase ben precisa dello scontro proprio queste truppe, lo vedremo, si trovarono sulla destra delle prime linee romane.
Chiede ancora una risposta l’altra obiezione, senza alcun dubbio la più imbarazzante; risposta in parte fornita però già dallo stesso Susini, ricordando come non tutte le forze di Caio Flaminio fossero entrate nella trappola.
Gli scampati sarebbero stati piuttosto numerosi; e sulle perdite romane torneremo. Certo è che alcuni giorni dopo, sparsa fuga (Livio 22, 7, 2), alla spicciolata, furono almeno 10mila i superstiti che raggiunsero Roma. Già De Sanctis osserva che, quando l’avanguardia romana «giunse all’altezza di Tuoro, la metà almeno della colonna romana doveva essere ancora fuori dell’aulòn (vallone)».
Rallentare la marcia
Non proprio la metà, forse; ma, certo, quando le forze puniche passarono all’attacco, 10mila uomini circa non erano ancora entrati nella trappola. All’interno del vallone dovevano trovarsi in quel momento forse neppure 15mila uomini. All’uscita dalla brevissima strettoia del Malpasso – un budello lungo non piú di 200 m – che dunque non potevano percorrere piú di 450 o 500 uomini al massimo, l’agmen, la formazione che era stata costretta a procedere su tre file al massimo, dovette senz’altro rallentare la marcia; era infatti necessario pandi, «allargarsi» (Livio 22, 4, 4) e non su sei od otto linee soltanto, ma – credo – su uno schieramento molto più profondo.
Sebbene non avesse alcuna intenzione di accettare battaglia, prevedendo di potersi trovare a breve a contatto con la retroguardia nemica, il console cercò probabilmente di premunirsi, assumendo una formazione difensiva, di quelle note e attuate normalmente dall’esercito romano. Dovette quindi, per tornare a quanto detto sopra, sacrificare altro tempo oltre a quello che aveva già perduto, sia disponendo già la cavalleria in posizione di fiancheggiamento, sia incaricando tribuni e centurioni di riordinare i ranghi man mano che superavano la strettoia e cercando un assetto che potesse eventualmente passare in fretta, con una semplice conversione, dall’ordine di marcia a quello di battaglia.
Venendo via via che entrava nel vallone a disporsi in un agmen tripertitum, su tre scaglioni, l’esercito romano prese ad assumere probabilmente, con ciò stesso, una formazione su linee molto più profonde – dieci uomini e oltre – di quelle iniziali.
Il console non riuscì, a ogni modo, a completare lo schieramento. Mentre ancora molti Romani, avanzando da Borghetto, continuavano a procedere incolonnati verso il Malpasso per poi assottigliare le linee e inoltrarsi nella strettoia, le avanguardie, che avevano scoperto dai fuochi accesi in altura la vicinanza del nemico, piegarono istintivamente verso nord-ovest; e cominciarono probabilmente ad aprirsi in linea di fronte, per assumere una posizione di difesa. I primi tra questi uomini trovarono, probabilmente senza cercarlo, uno scampo verso ovest, forse incuneandosi nel varco a fianco delle linee dei Celti, lasciato libero dalle cavallerie puniche scese a precipizio a investire il fianco delle legioni in marcia. Qui, non verso est, dove le aveva previste in cerca di sfondamento Annibale; e dove dai valloni aggettanti sul lago, calavano frattanto i Baleari e i leggeri, che effettivamente aggredirono i Romani ek tôn plagíon (Polibio 3, 84, 3), in latera (Livio 22, 4, 7), su entrambi i fianchi
All’imbocco del vallone
Questo per quanto concerne i Romani. Circa le forze puniche, onde definirne consistenza e impiego sul campo resta da risolvere preliminarmente il problema delle cavallerie; per le quali non credo a Tito Livio. Chi abbia ispezionato il declivio che, da Montegualandro, chiude il vallone di Sanguineto da occidente non può accettare che Annibale abbia schierato equites ad ipsas fauces saltus (22, 4, 3) «all’imbocco stesso del vallone». Qui la natura del terreno, estremamente dirupato, avrebbe infatti non solo impedito una carica, ma ostacolato persino i movimenti più semplici dei cavalli, rischiando di nuocer loro alle zampe. Più convincente mi pare la soluzione offerta da Polibio (3, 83, 4), secondo il quale il Barcide schierò Celti e cavallerie su una linea continua, gli uni accanto agli altri, in modo che i fanti si trovassero all’imbocco del vallone. Più che a un’improbabile (e forse inopportuna…) commistione di corpi differenti lungo tutto il fronte, credo si possa ritenere che l’insieme delle forze montate puniche (comprendente anche i cavalieri gallici, uno dei quali fu tra i protagonisti dello scontro…) fosse disposto oltre l’arco dei Celti, più verso Tuoro; e fosse scaglionato in profondità, forse lungo le direttrici del Fosso delle Cerrete e soprattutto del Rio Macerone, là dove l’allargarsi della valle avrebbe permesso loro di muoversi meglio e di prendere lungo il declivio lo slancio necessario per una carica. Fu forse nel varco lasciato aperto da queste truppe che poterono infiltrarsi i 6mila dell’avanguardia.
Tornando ora alla seconda parte dell’obiezione mossa a Susini, allo schieramento punico vanno sottratti i forse 15mila Libi e Iberi che componevano le fanterie pesanti veterane venute dalla Spagna; che, concentrati in un’area ristretta nei pressi del campo, furono secondo me addirittura risparmiati. Vanno sottratti altresì i 5-8mila leggeri, imboscati post montes; sicché lungo il circuito dei colli che corre attorno al lago dovettero trovar posto meno di 25mila uomini, 10mila dei quali, i cavalieri, erano oltretutto allungati lungo il doppio vettore del rio Macerone e del Fosso delle Cerrete.