- In un’ara dedicata a Nettuno si trova per due volte una epigrafe che riporta il termine Ocrisiua, un nome che nelle fonti classiche appare solo due volte
- Secondo la leggenda Ocrisia era la sposa di Tullio, re di Corniculum, diventata poi schiava di Tarquinio Prisco e infine madre di Servio Tullio, il sesto re di Roma
- La sua origine potrebbe essere sabina perché nel dare nome al figlio, si sarebbe attenuta al principio safino per cui ogni individuo si designa con il gentilizio del padre
OCRISIUA
Nel Museo Archeologico di Terni si può ammirare un’ara parallelepipeda dedicata a Nettuno, rinvenuta nei pressi del Lago Velino, che fin dall’epoca preistorica occupava l’intera valle reatina. Sulla base di appoggio destinata all’oggetto del sacrificio agli dei, c’è un’epigrafe ripetuta due volte. Su una delle due facciate principali compare l’immagine di un officiante che da una patera, la coppa usata per offrire bevande durante i sacrifici rituali, sta versando l’offerta sul fuoco.
Intorno alla testa dell’offerente si legge: NEPTUNO SACRUM / L. VALERIUS NIGRI LIBERTUS MENANDER / PORTITOR OCRISIUA.
Lo stesso testo torna sulla faccia opposta dell’ara, dov’è rappresentato il dio Nettuno, mentre sui lati minori ci sono delle barche, di quelle che dovevano servire al trasporto sul lago Velino. La traduzione è chiara: «Consacrato a Nettuno. Lucio Valerio Menandro, liberto di Nigro, traghettatore di Ocrisiua». Resta però da capire che cosa indica il nome Ocrisiua, un toponimo, come molti ritengono, anche se ignoto (o un ablativo/locativo, oppure, se da leggersi Ocrisiuas, un genitivo).
A prima vista la voce ocrisiua corrisponde a formazioni latine, come extensīvus, occāsīvus, passīvus, possessīvus, prōmissīvus, succisivus: ma queste voci sono derivate da participi passati in -s- (dovuta all’incontro di dentali). Mentre ocrisiua sembra un derivato del sostantivo safino (oscoumbro) ocri- «monte». Resta allora la sola possibilità che si tratti del composto di due basi nominali.
Dagli studi di Gianluigi Carancini (1990) e altri archeologi e dalle ricerche più recenti di Christian Mauri (2018) si apprende che dall’età dal bronzo fino ad epoca storica uno dei villaggi perilacustri sulle rive del Lacus Velinus era situato presso l’attuale colle Montisola, una località che oggi fa parte del comune di Contigliano, in provincia di Rieti. Anche lo storico e retore greco Dionigi di Alicarnasso ricorda che al tempo degli Aborigeni uno degli abitati sorgeva nell’isola di Issa.
Ebbene, la nostra interpretazione del toponimo okrisiua permette di legare in un quadro unitario e coerente questi dati. Considerando che nel safino delle Tavole Iguvine è presente la ł “elle velare” scritta u̯ in posizione iniziale di parola, si può ritenere che nel sabino della zona ternana la pronuncia velare fosse dominante anche all’interno di parola. Perciò si rende probabile che nel toponimo in questione si sia avverata la sequenza: okrisiua < okri-isseła < *okr(i)-ensela, con il significato di Mont-isola. Che la formazione indeuropea *en-sela- significhi «isola» è piuttosto ovvio, soprattutto considerando che il latino insula deriva proprio da *en-sela-, a sua volta < *en-salo- «nel mare»; la radice potrebbe però essere anche quella di *selos- «mare, lago, stagno» (IEW 901), senza bisogno di postulare il *sal- «sale».
A questo punto l’informazione di Dionigi secondo cui nel lacus Velinus sorgeva un’isola detta issa si spiega senza bisogno del greco nésos «isola» (peraltro foneticamente malamente giustificabile nel toponimo issa): Issa < insla < ensela, secondo i normali tratti safini della sincope postonica e -ns->-s-. Quanto alla scrittura con <i> per [e], va tenuto presente il fatto che i dialetti safini (come quello delle Tavole Iguvine) conoscevano l’opposizione di /e/ e di /ɛ/ (cioè della semichiusa e della semiaperta anteriore, come del resto per le posteriori), il che veniva trascritto con l’alfabeto latino rendendo le [ɛ] come <e> e le [e] come <i>, visto che l’alfabeto latino non ha lettere per distinguere le aperture intermedie.
Ma il tema richiede una ulteriore considerazione. Difficilmente può essere casuale il fatto che la voce Ocrisiua dell’iscrizione presenti una forte coincidenza con il nome della leggendaria figura di Ocrisia nella tradizione primigenia romana: basta rilevare che la complessa sequenza [okrisi-] in tutti i documenti classici ricorre solo in questi due casi, il nostro toponimo e il nome di Ocrisia, la madre del re Servio Tullio, successore di Tarquinio Prisco (ma non figlio di lui e della consorte Tanaquil).
La leggenda sulla sua nascita è riportata in forma completa da Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, 4.1.2, è ricordata da Ovidio Fasti 6.625 ss., da Plinio, NH 36.70, e, infine, è accennata anche da Festo,174.47–52. Ocrisìa, una donna di gran lunga superiore a tutte le altre donne di Corniculum per bellezza e modestia (Dionigi), era la sposa di Tullio, re di Corniculum (città latina oggi dubbiosamente identificata con Montecelio); ma, morto il marito durante la difesa di Corniculum dall’assedio dei Romani, Ocrisìa, già incinta, cadde prigioniera di Tarquinio Prisco, che la assegnò in dono a sua moglie Tanaquil, la quale prese ad apprezzare le virtù della sua nobile serva.
Mentre Ocrisìa provvedeva presso il focolare ai normali riti domestici, apparve dal fuoco la forma di un membro virile. Il re e la regina interpretarono il miracolo come il segno che la fanciulla avrebbe partorito il figlio della divinità del focolare, (o Vulcano o un Lare). Così venne alla luce il bimbo, che lei chiamò Servio Tullio, il futuro successore di Tarquinio Prisco sul trono di Roma.
Ma, se tutte le tradizioni concordano sulla presenza di Ocrisìa a Corniculum come moglie del re di quella comunità, in nessun passo si dice di quale ambiente fosse originaria. Data la base derivazionale del suo nome ocri- «monte» (sono ben 71 le ricorrenze nelle Tavole Iguvine), potrebbe ben essere stata donna di stirpe safina; ciò sarebbe avvalorato dall’epoca stessa in cui sarebbe vissuta (VI secolo. a.C.), quando nell’Italia Centrale non etrusca tutte le comunità di una certa importanza risultano sotto il controllo di gruppi safini.
L’ipotesi sembrerebbe confermata dal fatto che, nel dare nome al figlio, si sarebbe attenuta al principio safino per cui ogni individuo si designa con il gentilizio del padre (Tullius, cioè della gens Tullia) a cui va aggiunto un nome proprio legato a qualche peculiarità rilevata alla nascita (così Servius, cioè di condizione servile). Infatti, è noto che il sistema onomastico bimembre (nome proprio + gentilizio) non era in origine di pertinenza latina, ma tipico delle genti safine (Peruzzi 1973 passim e Prosdocimi 1987:63), come è evidente specialmente nelle Tavole Iguvine.
È quindi elevata la probabilità che Ocrisia fosse l’adattamento latino di una forma safina, che doveva suonare okrisìa, una voce che, secondo la grafia “umbra” delle Tavole Iguvine, sarebbe scritta okrisiha, con il segno di laringale ad indicare che i e a costituiscono due sillabe distinte; in latino, invece, nei documenti di età classica, questa voce (anziché restare bisillaba: -ìa) sarebbe stata conguagliata alla classe dei temi in -i̯a, come è accaduto per i prestiti greci in -ία- (vedi Ἰταλία > Itàlia). Ma mentre -i̯o- è un morfema derivazionale comune a tutte le lingue italiche, il suffisso -si̯io- appare piuttosto isolato: e i pochi esempi che lo recano suggeriscono un’origine safina, come nel caso della gens Calvisia (da calu̯os «calvo») o della gens Nŭmisia (da Nŭma).
Da questo punto di vista, il nostro Ocrisìua si direbbe la forma safina originale, di cui Ocrisia appare essere l’adattamento alle abitudini morfofonetiche latine. Tutto ciò potrebbe restituire alla madre del re romano Servio Tullio un’origine safina, e più specificamente sabina.