Com’era Perugia al tempo dell’incontro fra gli Umbri e gli Etruschi? Ecco la descrizione che ne dà Tito Tèteio, ombrico di Igovio (Gubbio) protagonista del romanzo storico “Pane di Farro” (Edizioni Jama) del glottologo Augusto Ancillotti, lo studioso che ha portato a compimento il secolare percorso della traduzione delle Tavole di Gubbio. Il libro è una vera e propria miniera di notizie e curiosità sul mondo e la civiltà degli Umbri.
Finalmente la vidi, là sul monte. Vidi da lontano il muro di legname e graticcio intonacato di argilla e ocra che cinge l’abitato, con il suo colore giallo rossiccio, come dice il nome con cui la chiamiamo fin dal tempo degli Antichi: per-roža, “la rossiccia”. Aveva ancora l’aspetto di un abitato ombrico, come il nostro Igovio, ma qua e là dietro la recinzione tradizionale emergevano i tetti di costruzioni più alte del normale, dei tetti con strane coperture di argilla, con antefisse e protomi, certamente di tipo tursko.
Non erano neanche cinquant’anni da che i primi Turski erano comparsi nell’abitato dalle mura rossicce, e senza scontri, senza sangue, si erano pacificamente inseriti nel gioco dei poteri locali.
Non era stato difficile, dato che potevano puntare sul controllo delle tecniche d’avanguardia di cui erano padroni, come la conoscenza dell’idraulica, la perizia nella lavorazione del ferro, la pratica dell’architettura in pietra e in mattoni, la lavorazione dell’oreficeria, e soprattutto il controllo di una rete commerciale che abbracciava non solo la regione fino al mare occidentale, ma anche le rotte marittime con la Fenicia, l’Ellade, l’Esperia e così via.
Nel corso di due generazioni si era imposto anche il sistema amministrativo dei nuovi arrivati, con i quali l’aristocrazia ombrica era venuta facilmente a patti. In fondo ai patrizi ombrici bastava mantenere la posizione sociale privilegiata, magari migliorandola con i vantaggi che potevano venire dalle nuove tecniche portate da quegli stranieri. Ci furono ovviamente dei focolai di ribellione, ma non si ebbe quella sollevazione popolare che avrebbe potuto costituire un motivo di guerra tra i residenti e gli immigrati.
Peroža è stretta e lunga, come il dorso di un mulo. L’abitato si estende tra due colli, uniti da una sella, uno un po’ più alto a buricario, come si dice in ombrico, cioè verso aquilone, e uno un poco più basso a meridione. Il colle più alto è detto tradizionalmente Velio, cioè “assolato”, e lì si erge la vecchia acropoli, dove si sono insediati già molti dei Turski più eminenti, oltre ai tradizionali atieži ombrici Sažinati, mentre il colle a meridione si chiama da sempre Landone, cioè “costone, fiancata”, in quanto il suo lato a solina è scosceso e domina la piana del grande fiume.
C’è poi fuori città un terzo colle, ancora più alto dell’acropoli, che gli abitanti chiamano ocri Popliçe, dove si svolgono i riti della comunità Sažinate; questo colle è collegato con la porta Buricaria da un percorso diritto, che anche qui chiamano veha mežuva “via giusta”, come la nostra che da Igovio porta all’ocri Fisio. La recinzione dell’abitato chiude i due colli, Velio e Landone, e la sella più bassa che li collega: al suo interno hanno sede le abitazioni delle famiglie patrizie Sažinati e quelle dei Turski, mentre appena fuori, lungo i pendii che scendono da tutti i lati, sono disseminate le altre abitazioni, più modeste, della popolazione Sažinate.
Nelle zone pianeggianti, intorno all’abitato, si estendono le proprietà terriere, tradizionalmente dei nobili Sažinati, ma ora, sempre più spesso, dei ricchi Turski. Si capisce facilmente che la ricchezza della comunità mista che vi abita sta facendo allargare l’abitato, soprattutto a occidente, e che ben presto lo si dovrà rifondare, se si vogliono comprendere all’interno del pomerio tante abitazioni e tanti spazi che ormai sono parte integrale dell’abitato. Ma al momento il recinto sacro, il pomerio, chiude solo la parte alta, il costone centrale dell’abitato.
Sotto il colle Velio, a occidente, a ridosso del pomerio si trova il tempio tursko più importante della città, quello dedicato alla dea celeste Uni, una struttura nuova, costituita da un grande basamento di pietre squadrate, che ancora è in corso di completamento, su cui si erge un edificio di mattoni di argilla con un tetto svettante e ricco di acroteri e abbellimenti.
Noi Ombrici in genere usiamo sacrificare alla divinità all’aperto, in aree sacre recintate da pali e festoni di lino, e non abbiamo templi in forma di edificio, salvo a volte la presenza di un tremno nell’area sacra, una casetta che in realtà è solo un annesso del santuario, dove si conservano oggetti e strumenti del sacrificio.